Il mostro di Modena

Tra il 1985 e il 1995 otto donne vennero ammazzate brutalmente.

All’epoca le indagini frettolose ipotizzarono che si trattasse di delitti compiuti da killer diversi e legati alla tossicodipendenza.
Adesso un libro racconta la storia del “mostro” senza volto.

Modena è la mia città.
La vivo da cittadino, da analista ne indago le periferie umane.
Dunque ricordo bene come tra l’agosto del 1985 e il dicembre del 1995, otto giovani donne furono bestialmente uccise: strangolate, accoltellate, colpite con fendenti al cuore. Per molti anni gli investigatori validarono l’idea di eventi isolati, slegati l’uno dall’altro, maturati in ambienti torbidi.

Tutto doveva restare confinato ad un grand guignol della suburbia popolata da prostitute, papponi, balordi e spacciatori. Le donne in oggetto erano, tranne una, puttane, dunque vite ai margini solite ad essere dimenticate in fretta.
Ricordo che già all’epoca alcuni elementi ricorrenti nell’esecuzione degli omicidi lasciarono ipotizzare una mano unica dietro quella catena di crimini, ma questa traccia non venne mai realmente seguita.
Questa ipotesi è oggi tornata in auge, grazie a un libro che intende riaprire questo cold case (Il Mostro di Modena. Otto femminicidi ancora irrisolti di Giovanni Iozzoli, edizioni Artestampa) nonché a un approfondimento televisivo dedicato da Sky.

All’epoca non c’era una gran voglia di affrontare lo scenario peggiore e più allarmante: quella di un serial killer libero, spietato e prodotto dal seno della società modenese.
Le cronache ci dicono di investigazioni frettolose, passate tra le mani di inquirenti diversi, senza continuità di metodo.
Perché l’indagine su otto vite di donne stroncate non produsse risultati? Modena era ed è una città ricca, opulenta, con una linea di demarcazione ben netta tra il centro luccicante e le periferie opache, dunque il cittadino medio avrebbe maldigerito l’idea di una sorta di “Jack lo squartatore” prodotto dal suo stesso seno.
Si cercava di preservare una certa idea di provincia sana e incontaminata, pur essendo la città della Ghirlandina diventata un grosso centro industriale ben inserito in tutti i flussi commerciali, migratori e criminali del nord Italia.
Migliaia di piccolissimi artigiani erano riusciti nel salto di qualità, diventando imprenditori, spesso di livello nazionale.Qua giravano soldi, c’era un benessere ostentato, arrivavano fiumi di migranti a ondate successive.

Ragiono da analista: ogni corpo sociale, ricco, lindo e pulito, genera e si fonda su un universo parallelo e disconosciuto, una sorta di antimateria che ne costituisce un pesante contrappeso rifiutato dalla “città bene”.

Allora scorrevano fiumi di eroina nelle vie principali della ricca Mutina arrivando sin nelle provincie remote.
Di questo ho un ricordo personale: da giovane calciatore dilettante si iniziava il campionato in 20 atleti e lo si finiva decimati in quanto diversi dei miei compagni di gioco venivano trovati morti a letto, o in auto, stroncati da overdose.

Questo perbenismo pruriginoso ha probabilmente avvalorato l’opinione, non espressa pubblicamente ma sicuramente ben radicata, per cui le prostitute, per altro tossicodipendenti, in qualche modo “meritassero” un destino tanto atroce. Il connubio droga-prostituzione, per alcuni, era il simbolo più estremo del degrado morale: le frequentatrici di quegli ambienti, che contaminavano la città, in qualche modo “se l’erano cercata”; e si giustificavano così le violenze (frequenti, anche senza arrivare agli omicidi) che potevano piovere loro addosso. “Uccide prostitute drogate, la gente non si commuove” titolava un locale quotidiano dell’epoca.

Dalle stesse colonne i familiari denunciavano la rimozione collettiva del problema, sostenendo che la gente non si “allarma perché” venivano uccise “solo quelle la”.
La realtà parallela invece testimoniava ciò che la polis illuminata non voleva vedere: molte delle ragazze che si prostituivano lungo i viali per procurarsi una dose erano figlie legittime della città; i padri di famiglia che le caricavano in macchina erano sicuramente cittadini normali.
Modena dovette fare i conti con una realtà che solitamente si fingeva di ignorare: di giorno esibiva un volto pubblico di cui era fiera, ma la notte, quelle stesse strade cittadine, vivevano di una vita regolata da altre leggi che prevedevano sopraffazione e sofferenza sociale.
La damnatio memoriae che ha colpito queste giovani donne è il prodotto deteriore e perverso di una città ordinata, pulita e per tropo tempo smemorata, morti nascoste da un velo ipocrita che nessuno voleva stracciare.

Oggi è tempo che la verità venga ristabilita.
Giovanna, Donatella, Marina, Claudia, Fabiana, Anna, Annamaria e Monica attendono che quel velo venga squarciato.