Intervista rilasciata a Il Foglio

Jung e Lacan, quale analisi?

Dopo il confronto Freud-Jung, ecco quello Jung-Lacan. Simonetta Putti, psicoanalista junghiana, e Maurizio Montanari, psicoanalista lacaniano, rispondono alle identiche venti domande per arricchire i contributi di pensiero e di prospettiva, e consentono di continuare a sviscerare un tema, l’analisi, e una disciplina, la psicoanalisi, sempre al centro di dibattiti contrastanti e talvolta infuocati. (di Davide D’Alessandro)

Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?

Simonetta Putti – Credo che la psicoanalisi sia uno strumento a disposizione di chi voglia liberarsi di condizionamenti che hanno impedito e/o limitato una adeguata realizzazione delle potenzialità disponibili. Nell’approccio junghiano la persona si stacca in una prima fase dal territorio collettivo (laddove crescono, si diffondono e si rafforzano anche i pregiudizi e gli stereotipi) per recuperare man mano uno spirito critico che consenta una messa a fuoco del proprio essere; in una seconda fase – avviato il processo di individuazione – l’individuo può tornare anche al collettivo senza più farsene inglobare, forte di una identità recuperata che ormai è in grado di difendere.

Maurizio Montanari – Si va da uno psicoanalista anzitutto quando si sta male, quando si soffre per un sintomo che impedisce o rende difficoltoso il normale vivere quotidiano. L’individuo, come ha insegnato Freud, “soffre a causa di un conflitto interno che non è in grado di risolvere da solo”. Si va altresì da uno psicoanalista quando i passaggi cruciali, i tormenti, le impasses alle quali è soggetto l’uomo nel suo incedere quotidiano paiono prevalere sul desiderio di vita. La psicoanalisi è il darsi un’altra possibilità.

Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?

S.P. Nel 1973, a 23 anni,  attraversavo un profondo malessere esistenziale e chiesi ad Aldo Carotenuto di intraprendere un’analisi individuale. Mi ero trovata a vivere – nel piano affettivo – vicende familiari di conflitto con la figura materna che sfociarono in un precocissimo matrimonio/fuga, nella nascita di una figlia, in una rapidamente sopravvenuta crisi della relazione matrimoniale, conclusasi pochi anni dopo in un annullamento rotale. Nel piano collettivo e sociale, intanto, lo spartiacque epocale del 1968 mi aveva visto – diciottenne – alle prese con una neo-famiglia che si sgretolava, anzi che io stavo sgretolando per difendere una libertà di esistere/studiare/ lavorare che l’allora coniuge mi interdiceva. Nel conflitto tra famiglia e soggettività avevo scelto quest’ultima, pur non riuscendo mai a identificarmi con le battaglie emancipative e femministe che in quegli anni caratterizzarono il collettivo italiano, e come sinteticamente ho descritto nel libro Chirone.

M.M. Una impasse della mia vita mi aveva condotto in una zona di staticità. Ho una struttura ossessiva, ed è proprio dell’ossessivo chiudersi in luoghi dai quali il desiderio è messo fuori.

Come scelse i suoi analisti?

S.P. Il primo analista, Aldo Carotenuto, entrò nella mia vita anche per fattori casuali: mia madre lo conosceva indirettamente e ne suggerì il nome: io accettai. Successivamente, entrata come allieva in training nell’A.I.P.A., scelsi gli analisti della fase propedeutica e didattica tra quelli allora disponibili: Silvia Rosselli, Antonino Lo Cascio, Marcello Pignatelli.

M.M. Il primo perché attratto da ciò che diceva, e fu una pessima scelta. Il secondo per quello che io su quel lettino riuscivo a costruire, e fu la scelta efficace. Solo la seconda fu una vera analisi.

Che cosa occorre per fare un ottimo analista?

S.P. Credo non si possa indicare la  miscela di fattori atta a produrre un analista ottimo. Posso però dire, in sintonia con Jung, che un buon psicoanalista è quello che –  nella consapevolezza della propria equazione personale di giudizio – sa porsi radicalmente in gioco.

M.M. Desiderio, senso etico. Lavoro ininterrotto e minuzioso nel pulire i propri ‘giacimenti di carbone’. Umanità. E ancora non basta…

Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?

S.P. Da molti anni la proliferazione delle scuole ha creato un mercato saturo in cui non è semplice per l’interessato effettuare una scelta. Una proliferazione che sento eccessiva in quanto non raramente si sono create scuole che hanno ritagliato una porzione del pensiero dei Maestri, eleggendo quella parte a proprio tutto.

M.M. Diciamo che possono confondere  gli studenti sommersi  dall’eccesso di offerta di organizzazioni sovente autoreferenziali. Una buona Scuola ha legami con altre istituzioni, in Italia e oltre. Per il paziente invece la scelta dovrebbe avvenire su basi transferali.

Perché ritiene Jung/Lacan il più convincente dei maestri?

S.P. Non è questa la mia posizione. Penso invece da gran tempo che occorre formarsi un modello di modelli, senza peraltro cadere nell’eclettismo. Freud, Jung, Adler, e via via i loro allievi ed epigoni hanno  costruito teorie e modelli interpretativi che possono rivelarsi adatti o inadatti a trattare le diverse tipologie e patologie umane. Auspico la possibilità, in sintesi, di un atteggiamento non dogmatico, ma relativizzante e storicizzante. In questo mi sento vicina al pensiero di Mario Trevi, al suo evidenziare che nel lascito nascosto di Jung c’è il nucleo di un modulo critico più fecondo del modulo psicologico.

M.M. Diffido del termine maestro. Lacan stesso derideva coloro i quali prendendolo a maestro si definivano lacaniani. Lui si definiva freudiano. La clinica e teoria lacaniana possiedono un’attualità inarrivabile. L’accoglienza del soggetto psicotico, il concetto di sinthomo , elemento di tenuta col quale leggere tanta clinica contemporanea. Infine, la sua lezione sulla perversione, struttura oggi alquanto sdoganata socialmente, che un analista lacaniano ha gli strumenti per accogliere.

Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?

S.P. In luogo del “fare anima” preferisco mirare al “fare verità”. Non Verità con la maiuscola, ma la verità individuale che è possibile intuire ed esplicitare in ognuno dei nostri pazienti, se abbiamo potuto e saputo vederla – prima – in noi stessi. Al di là di ogni strada preindicata, sintonizzandosi con i singoli livelli di immaturità e con i singoli punti di forza della persona che è davanti a noi. Una assunzione di responsabilità personale sempre mediata dall’Io: credo sia questo il compito principale dell’analista.

M.M. Sopravvivere all’osceno e non prendersi mai sul serio. Come uomini e come analisti.

Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?

S.P. Sorvolando sul ruolo talora giocato dalle resistenze, per esempio la fuga nell’innamoramento o nella salute,  talvolta è il paziente che avverte e segnala di aver raggiunto tappe significative nel percorso individuativo  e chiede una risoluzione del rapporto, talvolta è l’analista stesso a cogliere che nel piano di realtà il paziente è ormai in grado di procedere in modo autonomo e propone l’uscita dall’analisi.

M.M. L’analisi termina quando il sintomo fa meno male o ne restano solo cicatrici. Oppure  quando il soggetto ha  piena consapevolezza del modo col quale sta al mondo e riesce, magari abbozzando, a guidare la sua macchina senza più incidenti. La fine di un’analisi è la presa d’atto della fine del proprio ideale dalla quale consegue la messa in cammino su strade più consone e meno foriere di infelicità.

Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?

S.P. Negli anni attuali mi vado confrontando con una crescente presenza di strutturazioni narcisistiche e di personalità borderline, accanto a sempre presenti forme di depressione mascherata e di somatizzazioni; ma non credo si possa stabilire una gerarchia di gravità assoluta in quanto ciò che a mio parere conta è la forza risolutiva e trasformatrice che si attua nel campo analitico, tra “quel paziente” e “quell’analista”.

M.M. Uso le parole di J. A Miller: non c’è nulla di più difficile che mettere un ossessivo con le spalle al muro del proprio desiderio. Tuttavia le perversioni, che non stanno nel campo né delle psicosi né delle nevrosi, costituiscono oggi il campo di azione più difficoltoso per un analista, anche se rodato e coriaceo.

Curano di più le parole o i silenzi?

S.P. La psicoanalisi è “talking cure”, ovvero cura attraverso le parole, ma preferisco dire che curativo è il poter dare comunicazione alle parti più sofferenti e nascoste che il paziente ci porta. E la comunicazione è fatta anche di silenzi, di attese, di interpretazioni silenziose.

M.M. Il silenzio di un analista equivale ad una parola. Le cose, se ben dosate, si equivalgono.

Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?

S.P. Sì, e qui sono grata ad Aldo Carotenuto, al suo aver messo in luce come ognuno debba divenire sé stesso. Carotenuto era solito ricordare, con la consueta immancabile nota di ironia, che un analista non può dirsi junghiano o freudiano ma soltanto dire di aver appreso una modalità junghiana o freudiana, e che in sintesi l’analista è sé stesso, con le carenze e i punti di forza che lo caratterizzano e che progressivamente si integrano nelle opinioni, nelle convinzioni, nell’esperienza clinica.

M.M. Se si mette nella posizione di padre, va ripudiato. Quando è un ostacolo, come a me capitò, deve essere abbandonato. Quando è il testimone della tua camminata, salutato alla fine del tragitto.

Come si lavora per far crollare le resistenze?

S.P. Credo che l’analista non debba darsi la meta di far crollare le resistenze dell’analizzato, quanto piuttosto intuirle e tenerle nella propria costante attenzione, nella paziente attesa del momento giusto per tradurre l’intuizione in parola. Le resistenze, infatti, non vanno eliminate il prima possibile ma accolte in vista di quella fase in cui il paziente potrà iniziare a guardarle con spirito critico, a valutarne la storia e il senso sino a disattivarne la portata coercitiva. In questa prospettiva, il paziente potrà man mano rendere coscienti le resistenze e progressivamente sostituire alle vecchie, nuove e più adeguate difese. È quindi opportuno che l’analista valuti, caso per caso e momento per momento, quale sia la forza dell’Io del paziente.

M.M. Si sta vicini al soggetto lasciando che riempia lo studio con le sue certezze, in gran parte farmacologiche. Quando ogni orpello perde di valore, gli si chiede ‘ora di cosa vuole parlarmi?’. La scelta se indagare le parti molli affiorate è sempre e comunque del paziente.

È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?

S.P. Questa domanda ci porta al cuore della relazione analitica, perché è nella dimensione del transfert/controtransfert e nella sua gestione che si gioca principalmente la partita. Posso dire che la difficoltà/responsabilità di una buona gestione di questi fenomeni richiede una considerazione integrata che ne colga l’interazione e la reciprocità, e che attiene ad entrambi:  analizzante e analizzato,  nella fatica  e nella gioia. Non credo, quindi, che si possa istituire una scala di difficoltà. Al di là del pensiero di Jung, e oltre gli atteggiamenti e strumenti psichici appresi sul campo nella mia esperienza con gli analisti incontrati nel training, un riferimento forte – nella gestione del transfert/controtransfert – è per me  Heinrich Racker. Come coniugare Carotenuto e Racker? La mia posizione, che potrà forse sorprendere  taluni, esprime la consonanza con pensieri diversi che però ho percepito come integrabili. Carotenuto e Racker sono entrambi presenti nel modello di modelli che sono andata costruendo nel corso del tempo, pur se – almeno a uno primo sguardo – si colgono in essi più differenze che analogie:  si può cogliere in Carotenuto l’aspetto della libertà, talvolta trasgressiva, anche rispetto alle regole tecniche che caratterizzano l’analisi e in Racker l’attento e rigoroso maestro della tecnica. Trasgressione e regola, dunque? Qui mi limito a ricordare la proposta junghiana di un et-et in luogo dell’aut-aut. Differenze e opposti unificabili nel richiamo sotteso alla responsabilità personale. Racker scrive: “Il processo di trasformazione analitica dipende, in grande parte, dalla quantità e dalla qualità di Eros che l’analista è in grado di fare operare per il proprio paziente. Si tratta di una forma specifica di Eros, che si chiama saper capire, e in una forma ben specifica”. Per Racker lo specifico Eros che opera o dovrebbe operare nell’analista “si chiama saper capire”. L’analista ha da capire, dunque e soprattutto, “ciò che l’uomo respinge, teme e odia dentro di sé, e ciò grazie a una grande forza combattiva, una più grande aggressività contro tutto ciò che nasconde la verità, contro la illusione e il diniego: in altre parole contro la paura e l’odio che l’uomo ha di sé stesso e le loro patologiche conseguenze”. Il saper capire è allora – nella mia prospettiva – una particolare commistione di attenzione, forza, aggressività costruttiva, ottimismo, capacità di svelamento, consapevolezza di sé e dell’altro nella relazione. È questo specifico Eros che scorre, confluisce e rifluisce nella dimensione del controtransfert e del transfert.

M.M. Entrambi. Io ho conosciuto un’analisi nelle slavine controtransferali che mi travolsero causandomi danni irreparabili. Questo perché meccanismi del transfert sono a volte insondabili, motivo per il quale si assegna la  posizione di analista a chi forse non aveva il desiderio, la forza, la capacità di restarvi. Questo rende l’analisi ‘A Dangerous method’. Gestire il transfert del paziente è difficile, perché dipende dal lavoro su sé stessi, mancando il quale l’analista può dimenticare la sua posizione transeunte, e credere che l’abito che il paziente gli affibbia sia suo, quando invece, ‘è solo in affitto’. Questo determina il deragliamento di tante analisi. Il transfert comporta una responsabilità etica in quanto accettarne la posizione di destinatario implica  fare i  conti con tutto quello che  il paziente può mettere in scena. (Amori  fasulli, bordate d’odio improvvise). Gestire il controtransfert passa da una serie di domande che mi faccio a ogni  fine seduta. ‘Ho toccato il limite dell’angoscia con questo paziente’?  Ho risposto con violenza al paziente violento? Ho dato fiato al mio narcisismo quando l’analizzante raccontava i suoi sogni erotici? E con quell’altro, quello che milita in quel partito che io combatto, cosa ho messo in campo? Il mio lavoro o le mie sporchissime questioni personali?

Per  Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?

S.P. La buona interpretazione è quella che non scaturisce dalla sola intuizione dell’analista ma quella che emerge dal lavoro congiunto di paziente e analista. Nella  relazione analitica – in cui attori divengono le coscienze e gli inconsci di entrambi – si configura un campo in cui il dialogo è forse l’unica via interpretativa possibile: e ciò a condizione che entrambi i dialoganti riconoscano come condizione basilare la parzialità della propria prospettiva. Come ci ricorda Trevi, l’unica interpretazione vera è quella che ne ammette infinite altre.

M.M. Si, con una produzione onirica successiva che il paziente riesce a inquadrare a alla quale riesce a dare un significato autonomamente. Lì un soggetto diventa ‘analizzante’.

Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?

S.P. Il lavoro sul mio inconscio è iniziato molto presto, a 23 anni, come già accennato. Ci sono state fasi faticose ma in un continuum caratterizzato dall’entusiasmo per le nuove dimensioni che andavo conoscendo. Lavorando – successivamente – con l’inconscio dei diversi pazienti ho realizzato che per alcuni il gravame può essere forte, tanto più quanto il soggetto ha una iniziale visione grandiosa di sé stesso. Soggettivamente, comprendo caso per caso quale via il paziente intraprende nell’avvicinarsi alla propria verità e quali siano volta per volta gli ostacoli che incontra. Il lavoro dell’analista è anche intuire, comprendere, e chiarire – al tempo giusto  per l’analizzato –  la natura e il senso di quegli ostacoli, cercando di renderli meno bloccanti.

M.M. Entrambi.

Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?

S.P. Indubbiamente il percorso analitico classico ha costi elevati di tempo, energia, denaro; ritengo sia il solo percorso che può trasformare l’assetto interiore. Le cosiddette analisi e terapie brevi possono affrontare aspetti parziali. Nel nostro tempo, caratterizzato da una velocità che non di rado scade nella fretta, può apparire vincente la tecnica che assicura risultati rapidi e a basso costo: in questa prospettiva, la psicoanalisi e la psicologia analitica possono apparire obsolete in quanto richiedono tempi non brevi e una frequenza assidua. Così, corrispettivamente, le terapie cosiddette brevi e/o centrate sul sintomo possono sembrare maggiormente in linea con le esigenze attuali.

M.M. Molto più saggio orientarsi verso un’analisi con i prezzi concordati e calmierati. Molti analisti oggi lo fanno. La seduta tri-settimanale a oltre cento euro allontana dall’analisi.

L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?

S.P. È una buona definizione. L’Uomo dovrebbe essere attore della propria vita, potendo di volta in volta scegliere con adeguata libertà quali ruoli accettare e quali rifiutare, o quali negoziare, cercandone composizioni che salvaguardino le istanze soggettive e quelle sociali, cercando quella composizione degli opposti che Jung indica come via percorribile nella meta tendenziale di un progressivo equilibrio tra Io/Sé. Di fronte a noi, nel setting,  spesso arriva l’uomo che percepisce di non essere attore, o di aver perduto la capacità di agire attivamente: ci confessa di seguire copioni ripetitivi, sofferti, talvolta esecrati, quasi mai soddisfacenti; ci chiede di restituirlo a quella parziale libertà di scelta che consente di dire  sì o no alle proposte esistenziali, senza temere – ove si discosti dalla media o dalla supposta normalità – il rifiuto, l’esclusione, l’annichilimento.

M.M. Diventare libero e prendersi meno sul serio.

Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?

S.P. Penso al rischio dell’onnipotenza e dell’inflazione psichica. Quando l’analista pensa sé stesso come il salvatore onnipotente e guaritore onnipotente, inevitabilmente proietta sul paziente il ruolo unico del ferito e del malato. Pericolosa configurazione, come bene ha evidenziato Guggenbhul Craig, in quanto non consente al paziente di far ricorso anche alla propria possibilità di autoguarigione. Soltanto se l’analista si percepisce come “guaritore ferito” potrà consentire nel paziente l’attivazione della risorsa sopra citata.

M.M. Gli effetti controtransferali, che ho descritto ampiamente. Inoltre l’usura. C’è un momento in cui le angosce e il buio  fatti  entrare in  studio possono consigliare di mettersi in pausa, per evitare i danni sopradescritti.

Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?

S.P. Come accennavo nella precedente risposta relativa alla buona interpretazione, il campo che si genera nel setting va a configurare una scena ampia abitata dalla coscienza e dall’inconscio sia dell’analizzato sia dell’analizzante; scena che poi frequentemente si popola delle persone significative evocate dal ricordo e/o dal sogno del paziente. Di questa scena multiforme è bene si possano trovare via via  nuove significazioni: il senso che nel lavoro analitico possiamo dare al passato, e quello che riusciamo a dare alla narrazione di noi stesi è il precursore di nuove potenzialità esistenziali.

M.M. Per nulla. L’analisi è la riedizione della scena, spesso familiare, che ha marchiato il soggetto. Come ho scritto in un libro, l’analista è il custode delle chiavi di quella scena, riallestita ogni volta, nella quale sfilano, in absentia, tutti gli attori importanti della vita del soggetto.

La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?

S.P. Penso alle vulgate tradizionali, secondo le quali nell’approccio freudiano la sessualità ha un ruolo centrale e determinante, mentre nell’approccio junghiano ha un ruolo non prioritario. Rifuggo dalle generalizzazioni e dalle definizioni rigide, preferisco sottolineare che in ogni buon percorso analitico la sfera della sessualità va esplorata e compresa come paradigma anche esistenziale della persona. Ricordo quanto sottolineava Bruno Callieri, buon amico e maestro di idee, quando citava Merleau Ponty.: “Se la storia sessuale di un uomo fornisce la chiave della sua vita, è perché nella sessualità dell’uomo si proietta il suo modo di essere nei confronti del mondo, cioè nei confronti del tempo e degli altri uomini”.

M.M. Resta un elemento fondante. Anche nelle declinazioni attuali della sessualità che, come sappiamo, fanno sempre più a meno del corpo dell’altro.