Quando sul lavoro demansionare diventa sinonimo di degradare

La sentenza che ha condannato Didier Lombard e altri dirigenti di France Telecom per mobbing morale sancisce che l’annichilimento e la riduzione di tanti lavoratori a oggetto, preda delle pulsioni epurative del capo, è un fatto che travalica i confini delle regole aziendali per entrare a pieno titolo nel campo del puro sadismo.

So di cosa si tratta. Parlo da tempo con uomini e donne portati sull’orlo della disperazione grazie all’intervento dei “tagliatori di teste”. Professionisti ingaggiati per fare colloqui con i dipendenti, per poi lasciare trapelare che venti o trenta unità di quella fabbrica non saranno più riconfermate.

Non viene detto immediatamente chi, ma tale scelta è procrastinata di mesi e mesi, gettando ciascuno in uno stato di angoscia crescente che sovente culmina con azioni autolesioniste o atti mancati, utili a segnalare i “deboli” alla dirigenza che ha dunque un ottimo pretesto per metterli alle porte.

Demansionare sovente diventa sinonimo di spersonalizzare, degradare, umiliare. Ma non si creda che basti un comportamento discriminante e ghettizzante per condurre qualcuno sulla soglia della follia o della morte. Anche in questo caso, è la clinica a venirci in aiuto. Sono i più deboli strutturalmente i primi a cadere vittime di vessazioni sul lavoro. Portatori spesso di fragilità celate o mai venute del tutto a galla. La melanconia è uno stato dell’animo che predispone ai passaggi all’atto di tipo suicidario ed espone maggiormente tali soggetti ai rischi della crisi. Può giungere a livelli così profondi da indurre il soggetto che ne è avvolto a farla finita senza segnali esteriori evidenti. Il depresso grave e il border line occupano una posizione permanente di oggetto suscettibile di caduta, portatore di una provvisorietà radicale.

Tanti individui con fragilità strutturali, mai rese manifeste, cercano nel lavoro quel punto di tenuta e compensazione che possa sostenerli, cercando una stabilizzazione dell’essere che scongiuri la ricaduta nella originaria posizione di cosa. La vessazione portata avanti con pervicacia spesso allarga queste crepe preesistenti scompensando l’individuo. Solo utilizzando questa prospettiva è possibile comprendere la storia di Yonnel il quale, sapendo che sarebbe stato declassato da ingegnere ad addetto guasti, si piantò una lama nel ventre. O quella di Fanny che, ricollocata due volte, “si cambiò tre volte prima di buttarsi giù dalla finestra del suo ufficio, schiantandosi sul marciapiede”. Tali metodiche sono purtroppo diffuse in alcune aziende, alcune caserme, nel mondo dell’associazionismo e anche del volontariato.

Per arrivare a rendere un dipendente una “non persona” non è tuttavia sufficiente un capo violento: serve infatti una catena di comando fatta di spietati e sadici esecutori di ordini. Io queste pratiche le ho provate sulla mia pelle. Ero giovane, lavoravo in un gruppo. Non andavo d’accordo col capo. Ero ritenuto un ingestibile, un non riaddomesticabile.

Ebbe così inizio una sotterranea campagna di screditamento e diffamazione che aveva come scopo instillare nel gruppo dei colleghi l’idea che fossi portatore di quei germi che avrebbero potuto allontanare dal loro l’amore del Leader. Incontrai un meccanismo che in seguito vidi all’opera in tanti luoghi di lavoro. Tutto inizia col fare filtrare voci su presunti disturbi mentali del reprobo, il più delle volte definito “instabile” o, categoria ben più utilizzata, “paranoico“.

L’uso della categoria “paranoico” o “disturbato”, utilizzata in diversi casi di licenziamento, serve in maniera efficace a invalidare qualsiasi cosa l’individuo preso di mira dica. Ogni sua critica mossa verso il leader viene de facto falsificata all’origine, in modo tale che il gruppo ne prenda le distanze e lo ascolti attraverso la diagnosi fatta dal capo. “Sei paranoico”, “hai un esaurimento nervoso”, dunque qualsiasi cosa tu dica non va creduta perché frutto di malattia. Pena l’essere assimilati a te, perdendo dunque l’amore del boss.

Ho rincontrato per caso il soggetto che, nottetempo, chiuse a chiave la porta del mio ufficio, cercando clinicamente di mettersi in mostra agli occhi del capo. Ho visto nei suoi occhi il medesimo livore di allora, la tragica esistenza di un “esecutore di ordini anche in assenza di un emanatore”, sempre alla ricerca di un altro al quale appaltare i servigi del suo animo livido e disperante. Ne ho avuto pena.

Il suo sguardo, tra il cupo e il paonazzo, mi ha testimoniato ciò che la clinica mi ha permesso di vedere: una struttura malata si sostiene soprattutto su tanti piccoli kapò, pronti a dare forma a ogni nequizia sul prossimo perché obbedienti sino in fondo all’ordine padronale. Iniziai a occuparmi di soggetti mobbizzati e resi marginali anche grazie a questa mia esperienza.

Oggi dirigo un centro di psicoanalisi applicata, accolgo e parlo quasi quotidianamente con individui allontanati dal luogo di lavoro con le più strambe e dolorose pseudodiagnosi. Anni fa ho dato il via a un progetto sul mio territorio, “Lavorare stanca, non lavorare uccide”, grazie al quale, in maniera anonima e gratuita, coloro i quali andavano incontro al buio a causa di un licenziamento nel mezzo del loro cammino di vita possono essere ascoltati e, per quanto possibile, riabilitati al legame sociale.

Articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano”.