Lo psicologo a scuola

Il Ministero dell’istruzione, nel Protocollo d’intesa per garantire l’avvio dell’anno scolastico nel rispetto delle regole di sicurezza per il contenimento della diffusione di Covid-19 scrive che: “Lattenzione alla salute e il supporto psicologico per il personale scolastico e per gli studenti rappresenta una misura di prevenzione precauzionale indispensabile per una corretta gestione dell’anno scolastico. Sulla base di una convenzione tra Ministero dell’Istruzione e il Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi, si promuove un sostegno psicologico per fronteggiare situazioni di insicurezzastressansia dovuta ad eccessiva responsabilità, timore di contagio, rientro al lavoro in “presenza”, difficoltà di concentrazione, situazione di isolamento vissuta”.

E’ un ottimo segnale. Dobbiamo infatti iniziare a pensare al corpo insegnate non solo come il detentore del sapere al quale deleghiamo l’educazione dei nostri figli. Né vederli solo come quelle figure con la quale ci interfacciamo il giorno del ricevimento. Sono uomini e donne esposti alle medesime fragilità psicologiche riscontrabili in tutta la popolazione. Vogliamo che questo dispositivo contenuto nei dettami del Ministero costituisca realmente un fattore di discontinuità permettendo agli insegnati di poter poggiare su un sostegno reale, terzo e professionale? Allora va messo in pratica da subito.

I docenti saranno sottoposti a pressioni inaudite, incaricati non solo di manutenere la trasmissione del sapere ai ragazzi, quanto di garantire l’osservanza delle regole anti-Covid, la loro regolarità, supervisionando indicazioni sanitarie e di distanziamento che, seppure ormai entrate nella nostra quotidianità, si tramuteranno in uno sforzo immane allorquando andranno messe in pratica in classi di 20, 25 ragazzi.

Lavorare con l’angoscia di lasciarsi sfuggire qualche particolare nella pulizia, nel distanziamento, tenere tutto sotto controllo. E poi, dopo, a casa, con la propria famiglia, i propri figli. Magari con gli occhi pieni di scene di cari che non ce l’hanno fatta, di persone vicine che si sono ammalate. Talmente esposti al sacrosanto dogma della prevenzione da dover combattere timori di contaminazione mentre abbracciano i propri cari, col rischio che la carezza scemi in un freddo rituale, come è accaduto a molti medici.

Esposti al rimuginio notturno, al dubbio insonne di aver ottemperato a tutte le nuove direttive. Stati di angoscia, momenti di insicurezza, implosione di vissuti che non trovano un luogo di parola. Non solo: il corpo docente non è preparato a riconoscere ed assorbire patologie alquanto particolari le quali, durante il tempo pandemico hanno conosciuto un impennata: disturbi del comportamento alimentare, stati ingestibili d’angoscia, atti autolesionistici.

Si tratta di forme di sofferenza subdole che non hanno una deflagrazione immediata, i cui segnali erano forse percepibili da un occhio clinico, e che le restrizioni imposte dall’emergenza hanno acuito spiazzando i genitori. In questo casi si tratta a tutti gli effetti i dover accogliere ragazzi i quali, in alcuni casi, non sono più come i prof li hanno lasciati prima della chiusura.

Molti di essi hanno visto questi fenomeni emergere ed irrobustirsi, tanto da portare sulla loro pelle stigma ben chiare che, se possono essere intuite, necessitano tuttavia di un sostegno qualificato che aiuti i docenti a non esser travolti dalla quantità di sofferenza e domanda di aiuto che uno scolaro che ne patisce può portare. A tutto questo il mondo dei professori e dei maestri sarà esposto, e una comunità ha l’obbligo di occuparsene. La figura del clinico a scuola dovrà, a mio parere, espletare anche una funzione di supervisione e raccolta di segnali di cedimento nervoso dei suddetti.

Una figura professionale che si occupi delle mente dell’uomo deve essere in grado di intercettare e disinnescare quei presagi di malessere, nervosismo, insostenibilità, crisi individuali, quando non latenti tratti di sadismo, che possono sfociare in quei riprovevoli episodi di violenza all’interno della classe che le cronache a volte ci mostrano crudamente.

Pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” il 18/08/2020